domenica 31 gennaio 2010

Un frammento biografico: il mio viaggio in Islanda nel remoto 1975

The way I was - Islanda, 1975

Dopo la laurea (nel luglio 1975), decisi di partire per un viaggio abbastanza avventuroso, quasi tutto in solitaria.
Prima raggiunsi ad Amsterdam un mio cugino (Gianfranco). Da lì, assieme, ci muovemmo in autostop attraverso la Germania e la Danimarcoa sino alla Norvegia. Lo spostamento in autostop non fu agevole, ma alla fine ce la facemmo, grazie anche ad incontri veramente insoliti e memorabili. Chi sa perchè, ma quelli che si fermavano a prenderci su erano tutti al 90% dei tipi assolutamente bizzarri ed inusuali.
Ad Oslo, andammo a trovare una coppia di assistenti sociali che vivevano in una struttura per la riabilitazione degli adolescenti con problemi di adattamento sociale. I due li avevo conosciuti a Palermo, dove avevano soggiornato per quasi sei mesi ed io ero stato contattato per far loro da interpreti, vista la mia discreta conoscenza dell'inglese. In particolare, erano arrivati in Sicilia con l'obiettivo prioritario di rendere visita a Danilo Dolci, ma nello stesso tempo erano appassionati del mare e del sole, oltre che grandi bevitori, come la maggior parte degli Scandinavi, del resto. Lui - il suo nome era Thor - prima di diventare assistente sociale aveva girato in lungo e in largo il mondo nella navi mercantili: insomma un personaggio.
Ci fermammo per qualche giorno, a casa loro, che era anche la struttura dove vivevano con i ragazzi che venivano loro affidati, in un luogo quasi paradisiaco, campagna, prati verdi, grandi alberi frondosi e lunghe interminabili conversazioni (e bevute) con i nostri ospiti.
Da lì, prosegui da solo, sino a Bergen, in fondo ad un labirinto di isole e penisole che rendono frastagliata ed infinita la costa norvegese.
Mi imbarcai su di una nave che era diretta in Islanda e che avrebbe compiutao la traversata in circa due giorni perchè era prevista una sosta di molte ore nelle isole
Fær Øer, di cui ricordo una memorabile passeggiata pomeridiana attraverso un paesaggio di dolci colline senza alberi, rivestite di prati verde smeraldo e disseminate di pecore e mucche al pascolo. E poi, dela sosta in queste isole fuori dal mondo, ricordo ancora un'interminabile bevuta di birra con alcuni ragazzi del posto in una versione locale del pub inglese.
Arrivato in Islanda, mi sentii un po' spaesato: pochissima gente, paesaggi immensi, distanze enormi attraversopaesaggi deserti.
Arrivai il Sabato mattino: la cittadina di approdo era deserta, perchè tutti erano impegnati a bere di brutto, secondo le usanze locali.
Mi sentii un po' sconfortato: per caso, nello stesso Ostello in cui presi alloggio, conobbi una ragazza tedesca che viaggiava pure da sola e seguiva con molta determinazione un suo itineraro.
Le nostre vie ogni tanto si intersecavano e, allora, passavamo insieme ore ed ore a passeggiare e a conversare.
La sua capacità di affrontare le cose da solo mi furono di esempio e mi confortarono. Infatti, passati i primi giorni, riuscii ad organizzarmi e ad affrontare la necessaria solitudine del viaggio.
Passavo molto tempo a leggere: indugiavo a letto o nel sacco a pelo, la mattina: mi preparavo la colazione nei cucinini degli ostelli, ascoltavo le conversazioni degli altri viaggiatori, leggevo, riflettevo.
La mia lettura era fondamentalmente da un libro in inglese, scritto a due mani da una certa Mary Barnes e da
Joseph Berke, uno psichiatra inglese (o forse di origine americana, ma divenuto seguace delle ide di Ronald laing), dal titolo Mary Barnes. Two accounts of a jouney through madness. Me ne avevano consigliato la lettura i due miei amici norvegesi quando avevano sentito che volevo proseguire gli studi di specializzazione in psichiatria.
Man mano che leggevo le considerazioni della paziente Mary Barnes, delle sue vicissitudini attraverso la follia sino all'incontro prezioso con Ronald Laing e al suo ingresso a Kingsley Hall dove potè compiere integralmente il viaggio attraverso la sua follia, sino a riemergerne con una rinnovata consapevolezza, si rafforzava in me il convincimento che la strada che volevo imboccare era quella giusto, corrispondendo esattamente a ciò che volevo fare...
La foto me la fece proprio lla ragazza tedesca, nei pressi di Reykjavík dove allora vi era un piccolo aeroporto: qui ci recavamo a guardare gli aerei che arrivavano e decollavano, tutti ad elica.
Questa è l'unica fotografia mia di quel viaggio.
Io, allora, usavo esclusivamente le pellicole per diapositive e, nel corso del mio tour, fotografai rigorosamente i grandi paesaggi, distese infinite semi-desertiche, canyon, cascate maestose, che si dispiegavano davanti ai miei occhi meravigliati.
Per tre giorni fui preso in macchina da una coppia di tedeschi molto simpatici e segui il loro itinerario.
Da Reykjavík, infine, dopo una visita alle isole Vestmannaeyjar che erano state di recente teatro d'una devastante eruzione vulcanica che aveva seppellito gran parte della cittadina prinicipale sotto una coltre di ceneri e lapilli, spessa alcuni metri viaggiai in aereo su Glasgow e, di lì, di nuovo in autostop sino a York dove abitava la ragazza inglese con cui ero stato sino a poco tempo prima.
Quindi, dopo tre giorni di sosta, mi sono messo di nuovo on the road, abbandonando l'Inghilterra via mare sino a Ostenda, e in treno sono arrivato a Colonia, dove si era trasferito un mio caro compagno di scuola ed amico (Mario Gulli) che lì insegnava all'Istituto italiano di cultura.
Rimasi da lui per cinque giorni, abboffandomi di uova strapazzate e di insalate di patate (ma anche occasionalmente di qualche buon piatto di pasta per non dover dimenticare la nostra matrice italica) e, infine, mi decisi a tornare in u'unica tirata, con il treno.
Negli ultimi quindici giorni, avevo trascurato di farmi sentire a casa (questo oggi ci sembra quasi inconcepibile, ma allora non esistevano i cellulari) e quando finalmente arrivai a Palermo, mia madre era decisamente preoccupata e mi abbracciò quasi piangente, rimproverandomi della mia trascuratzza.
Fu un bellissimo viaggio, durato quasi un mese e mezzo, di quelli che rimangono profondamente impressi nella memoria.
Viaggiavo in economia, in autostop laddove potevo, dormendo il più delle volte negli ostelli della gioventù e, avendo anche il sacco il pelo, dove potevo.
Dimostrai a me stesso che mi potevo arrangiare e affrontare le cose da solo.
Fu, decisamente, un'esperienza di fomazione, di quelle che lasciano una loro traccia indelebile.

Su Mary Barnes
Nel 1965, Laing avviò una sperimentazione residenziale al Kingsley Hall di Londra, in cui i pazienti erano liberi di andare e venire godendo dell’assistenza, spazio e tempo necessari a elaborare la loro condizione mentale, invece di essere “curati” con mezzi farmacologici. L’approccio radicale di Kingsley Hall alla “follia” e alle sue terapie attirò l’attenzione pubblica sulla controversa teoria di Laing della pazzia come processo, che può implicare l’auto-guarigione e la rinascita. Il film accorpa un vasto assortimento di materiale di ricerca e audio-visivo, nell’ottica di trascendere il contesto per concentrarsi sulle esperienze dei pazienti, compreso Laing, in veste di psichiatra e quindi parte in causa a pieno titolo.
Nodo fondamentale del progetto era la libertà di espressione – quella che si mostra nel comportamento eccentrico dei pazienti, o nelle frasi e immagini scarabocchiate sulle pareti – che Fowler riflette in un fitto collage di materiali, con una particolare sensibilità per la grana delle immagini, nell’aspetto fluttuante delle vecchie riprese, e nell’attenzione per il dettaglio grafico.
Mary Barnes era una pittrice, protagonista dell’esperimento, che regredì all’infanzia per poter rinascere, processo vissuto con l’aiuto di Laing e degli altri pazienti.
Guardata con sospetto dall’establishment medico e dalla comunità locale, Kingsley Hall fu smantellata nel 1970 e la sua eredità in gran parte infangata dai mass media. La testimonianza di Mary in un’intervista contemporanea, insieme alla documentazione originale, e a una messa in scena teatrale per la tv dell’epoca, rievoca l’esperienza della paziente di Laing più emblematica, e la circostanza che ebbe modo di vivere, nelle sue parole: “Ronnie mi dette un’occasione, e quell’occasione mi fa vivere ancora oggi”.

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